martedì 23 giugno 2015

Anabasi

Oggi è il gran giorno della salita a Ighil (“monte” in berbero) o Jebel (“monte” in arabo) M’Goun. Sveglia alle 5, colazione del campione, pane arabo, olio e marmellata di fragole – un “maipiùsenza”, lo devo importare in Italia – e partenza.
Sono le 5.30, è ancora buio, camminiamo con la lampada frontale; lentamente la luce si affaccia sull’altopiano, è un’alba nitida, cristallina, eterea. Il sole però non lo vederemo per un po’, ci inerpichiamo per un sentiero ripido di sfasciumi. 


Alcune chiazze di neve macchiano le pendici della montagna possente. Dopo 3 ore di sdrucciolii, scivolamenti e imprecazioni arriviamo in cresta; a sud una serie ininterrotta di catene montuose che terminano nei bastioni dell’Anti Atlante, a est la ferita profonda e verdeggiante della Valle delle Rose, a nord un mare di nuvole da cui spuntano solo le cime più alte, a ovest l’altopiano declina dolce verso il deserto. 



Seguiamo la cresta, rocciosa e ventosa per due ore e finalmente alle 10.30 siamo in cima. Penso a cosa urlerò una volta in vetta, voglio esternare tutta la mia gioia. Tutto quello che mi esce è un liberatorio “Hippyaye, figlio di puttana” (Bruce Willis docet). Ho raggiunto il mio obiettivo: il cuore scoppia di gioia, i polmoni lavorano tanto. Sono a 4067 metri.
Tira un vento da Coppa America ma nonostante tutto troviamo un cantuccio riparato e restiamo un’ora sulla cima a goderci il sole e la vista sul mondo che ci circonda.



Poi cominciamo la ripida discesa in uno scenario lunare; sembra di essere sul pianeta Tatooine di Guerre Stellari, solo che invece di essere spiati dai Sabbipodi, siamo seguiti dai nomadi che si palesano con i loro greggi di pecore nei luoghi più impensati a 3000 metri. A un certo momento Mohammed mi dice: “Lo vedi quel ragazzino?” e penso che stia scherzando; intorno a noi il nulla, ripide pareti di roccia che si sgretola. Invece aguzzando l’occhio in lontananza intravedo un apiccola figura abbarbicata alla montagna. Ci avviciniamo e scorgo una ragazzina che cammina con naturalezza indossando dei semplici mocassini su sentieri impervi dove io fatico a stare in piedi con gli scarponi da montagna.
Scendiamo lungo un torrente impetuoso, figlio dello scioglimento delle nevi del M’Goun, fino a incontrare il luogo dove Moustafà ha posizionato il bivacco; mulo e mulattiere hanno percorso un’altra strada perché l’animale non riesce a salire in vetta.



Improvvisamente mi scende la tristezza; cerco di capirne i motivi. Il primo pensiero è che ho raggiunto l’obiettivo e mi sento come svuotato, ho dato tutto in salita e ora sono vuoto, leggero.
Il secondo pensiero, più forte, è la solitudine: siamo io, una guida simpatica ma che non posso considerare amico, un mulattiere che parla solo berbero e un mulo spelacchiato. È  un sabato sera di giugno, potrei essere a Milano per aperitivi e invece sono in una sperduta valle dell’Atlante marocchino, accampato in una tenda sul greto sassoso di un torrente, a bere tè – che in comune col Mojito ha solo la menta – e mangiare per il terzo giorno di fila lenticchie, carote e patate. Meglio o peggio? Non è questo il punto, la questione è che vorrei vivere entrambe le situazioni nello stesso istante. L’eterna insoddisfazione dell’essere umano.
Un altro motivo che mi viene in mente per giustificare il mio spleen baudelairiano è la crisi d’astinenza tecnologica: da 4 giorni il telefono è spento, non controllo l’e-mail, Facebook e non ho notizie dal mondo; potrebbe essere scoppiata la terza guerra mondiale e io non lo saprei . Ma è soprattutto l’astinenza da Social Network che si fa sentire con più insistenza, non poter controllare spasmodicamente cosa ha postato Tizio o Caio.
Patologia? Probabilmente sì…e delle peggiori. Mi consolo con un libro e facendo il bucato nel torrente gelido.

Anche stasera si va a letto presto.

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